Norcia è un purgatorio. Una città in cui tutti attendono la fine di una penitenza inflitta per colpa di un capriccio della Terra, fra cantieri infiniti, promesse di ricostruzione non mantenute e una mogia vita quotidiana fra tendoni e baracche prefabbricate attorno alle mura del centro storico.

Ho confrontato le mie fotografie con immagini risalenti ad appena quattro mesi prima del terremoto, con un uso insolito di Google Street View: viaggiare nel tempo, nel momento prima del disastro. Chi avrebbe immaginato, in quei giorni, di star vedendo per l’ultima volta la città?

Ma torniamo al presente.
Capisci che qualcosa non va quando arrivi di fronte all’ingresso di Norcia, che ti accoglie con le stampelle: Porta Romana, infatti, è un arco completamente coperto da impalcature, a loro volta cariche di cartelli ed elenchi di tutte le attività commerciali che sono state spostate fuori dalle mura cittadine, nella speranza di sopravvivere vendendo qualcosa agli ultimi visitatori e ai residenti che, stoicamente, sono rimasti in città. I turisti sono diventati un miraggio: gli italiani hanno paura di pernottare e ci si affida soprattutto ai visitatori europei, che ogni sera stazionano nell’unico bar aperto, Benito, e fanno risuonare la città in lingua straniera.

Ai piedi di San Benedetto, il patrono d’Europa, era seduta Giuseppina, una signora novantunenne che vive in un basso senza porte e finestre alle spalle della chiesa, sopravvissuto miracolosamente ai crolli. Le sue vicine sono andate a Spoleto, mentre la sua amica d’infanzia si è trasferita a Terni ed ora vive con la famiglia del figlio. Così, rimasta sola, l’anziana signora passa l’intera giornata seduta in piazza a ricamare cappellini e sciarpe che ogni mese regala ad associazioni impegnate in progetti di beneficenza.
Voi ragazzi dovreste essere felici“, ha esordito con una parlata in un marcato accento umbro. “Lavoro da quand’ero in terza elementare e ancora oggi non mi fermo un attimo, ma sono felice. Oggi avete tante cose e non vedo più ragazzi sorridenti, quand’avevo la vostra età mi bastava giocare con le galline nei campi“.
Poi, fra storie d’amore non corrisposto e vite che non esistono più, non poteva mancare la guerra: “Ho scritto una poesia su un soldato che incontrai nel ’44. Era poco più di un ragazzino, impaurito e affamato, ma in paese nessuno voleva accoglierlo perché tutti pensavano fosse una spia dei tedeschi. Io mi feci coraggio e lo invitai a casa: ero certa che mamma mi avrebbe rimproverato. E invece lo fece sedere a tavola e gli diede da mangiare, lo accudì come un figlio. Chissà se è ancora vivo!“.
Ma non posso pubblicare questi versi, che fanno parte di una raccolta intera di memorie scritte in poesia. La signora è stata molto chiara: “Le ho scritte e le porto sempre con me, ma non voglio pubblicare nulla. Le recito a chi mi incontra in questa piazza“. Anche se ormai è deserta.

Qui la notte è davvero buia e non in termini retorici, ma perché in buona parte delle strade non c’è illuminazione pubblica. E le case evacuate contribuiscono a dare un’atmosfera spettrale al paese. Così, tralasciando il corso e le strade principali, alcune zone della città di notte sembrano sparire dal mondo. Almeno finché non si torna nelle piazze, in cui l’illuminazione pubblica è regalata dai gazebo dei pochi ristoranti rimasti ancora in attività, con fioche luci gialle che illuminano i tantissimi striscioni appesi ai balconi, in cui gli abitanti di Norcia accusano il governo di aver abbandonato la città.

Eppure si aggirano tantissimi giovani: ci si aspetterebbe un deserto fatto di anziani e pochi piccoli imprenditori che hanno deciso di rimanere in città. E invece in queste sere prima della stagione invernale si possono incontrare numerosi adolescenti rimasti a chiacchierare sotto la statua di San Benedetto o radunati attorno a un gelato da Benito, l’unico bar-gelateria aperto di sera dentro le mura. L’altro negozio notturno aperto è una piccola tabaccheria che sopravvive in una baracca di plastica appena fuori la porta d’accesso in città.
Attorno alle mura fratturate di Norcia si nascondono invece le coppiette che, in una scena dal gusto un po’ vintage, si baciano nella penombra degli alberi.

Per chi vive in città le vicende amorose tra ragazzi sono vissute con leggerezza e senza vergogna di apparire in pubblico.
Per una piccola comunità, invece, le cose in passato erano vissute con serietà e scandalo. La vicina Castelluccio di Norcia racconta bene cosa accadeva agli innamorati (e soprattutto ai tradimenti!) in paese: il nome di notte compariva su un “muro del gossip“, aggiornato con tutti gli inciuci del paesino che domina l’immenso altopiano fiorito che, non a caso, è chiamato “Piani di Castelluccio”.
La parete oggi è diventata un epitaffio scolorito: l’ingresso nel paese, che nel 2015 contava appena 121 abitanti, è sbarrato da un cartello che lo indica come “Zona Rossa“. Dietro si possono solo scorgere le macerie delle vecchie abitazioni, con le insegne rovesciate per strada e le case sbranate dal terremoto mentre mostrano ancora i propri arredi, un po’ come la carcassa di una preda della Terra mentre riversa le sue budella per strada.
Accanto alla piazzetta del paese, circondato da case che non esistono più, c’è ancora un vecchio cartello che recita cinicamente così: “Benvenuti a Castelluccio di Norcia, città Europea“.

Qui la notte non è come a Norcia: non ci sono più luci. Dopo il tramonto, l’intero altopiano divora Castelluccio con la sua oscurità e, quando giunge l’inverno, relega al passato tutte le fotografie che lo ricordano come un paesino innevato e pieno di luci, un po’ come un piccolo villaggio di Babbo Natale in salsa umbra.

Dopo il terremoto la città si è svuotata e si stima siano rimaste una trentina di persone. Il borgo è sopravvissuto grazie non solo alle famosissime lenticchie, che sono ancora oggi il piatto offerto dagli ultimi tre ristoranti aperti in piazza, ma anche grazie alla festa della fioritura primaverile, che illumina l’altopiano di rosso e giallo: l’intera piana si riempie di fiori che si distendono per chilometri a perdita d’occhio, partendo dal piccolo colle su cui si innalza Castelluccio e arrivando fino ai piedi delle montagne che separano l’Umbria dalle Marche.

Oggi “i turisti sono per lo più stranieri“, spiega un commerciante di prodotti locali costretto a sopravvivere in un lamierato posto di fronte alle rovine del suo negozio. E continua: “Gli italiani spesso sono spaventati e non vogliono nemmeno pernottare a Norcia. Ormai viviamo grazie a clienti di passaggio, ma è molto dura“.
L’intera economia cittadina è aggrappata al “Deltaplano“, un insieme di baracche e in acciaio e legno inaugurato nel 2018, nato per ospitare provvisoriamente le attività commerciali devastate dal terremoto. In realtà si è rivelato una sorta di flebo economica per un territorio ridotto in coma.
Ma il timore dei residenti è che questo intervento sia un modo con il quale lo Stato si è pulito la coscienza prima di depennare le comunità del Centro Italia dall’agenda politica, un po’ come è accaduto con le famose casette dell’Aquila: i lavori a Norcia proseguono a rilento e a Castelluccio non sono nemmeno state rimosse le macerie dalle strade.

Segnali che non lasciano sperare in una rinascita rapida della zona, soprattutto in un paese in cui le soluzioni d’emergenza troppo spesso diventano definitive.

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