Non avrei mai immaginato di appassionarmi al mondo dell’oreficeria. E invece, grazie ai ragazzi della scuola “La Bulla“, ho scoperto quanto profondo e intenso può essere l’amore verso un banchetto. E, soprattutto, che la fantasia può avere anche una forma metallica.
Mi sono trovato in quest’avventura grazie a Storie di Napoli: abbiamo stabilito un accordo per raccontare le eccellenze del Borgo Orefici e, fra uno scatto e l’altro, ho cercato di conoscere i volti delle persone che, con le loro mani, produrranno i gioielli che in futuro potrebbero stare sul vostro collo o attorno al vostro dito.
Si tratta di un lavoro che richiede fantasia e pazienza: dopo aver disegnato il modello da realizzare, infatti, si passa all’atto pratico, seduti al banco di lavorazione in compagnia di una lampada, una piccola estremità di legno usurata dal tempo e dall’infinita quantità di metallo passato sul minuscolo ceppo. Si tratta di un lavoro che richiede centinaia, migliaia di passaggi identici per rifinire il metallo che è stato prima riscaldato e poi modellato nella forma preferita. E, ad ogni passaggio, si deve utilizzare sempre una lima più raffinata, adeguare la pressione della mano e addirittura modificare anche la velocità di movimento. Un’operazione che farebbe stressare anche il Dalai Lama. Ma per i ragazzi è “rilassante”, anzi, “ogni volta è una sfida contro me stessa“, spiega Elena.
La scuola è frequentata da una decina di ragazzi dalle età più svariate, che vanno da chi è appena uscito dal mondo dell’adolescenza fino ai trent’anni. Una differenza anagrafica che si annulla nella complicità degli sguardi che gli alunni si lanciano fra i banchetti, mentre lavorano stoicamente nel soffocante caldo estivo.
Il laboratorio è una sorta di “Isola che non c’è” dell’artigianato: ognuno ha scelto la strada dell’oreficeria lasciando una strada diversa, alcuni addirittura abbandonando una carriera universitaria ormai conclusa per abbracciare l’arte del metallo. Altri, come Libera, sono stati folgorati dall’incontro con un artigiano, tanto da convincersi a prendere una strada inedita e antica.
La prima regola che ho imparato è un principio di vita: nessuno tocchi il banchetto. O hai guadagnato un nemico a vita.
Il piano di lavoro è l’anima del suo proprietario, dalle deformazioni del supporto di legno puoi capire cosa ama fare e che personalità ha.
L’affetto verso gli attrezzi del mestiere è davvero difficile al giorno d’oggi: se vent’anni fa si sognava l’iconica Leica o l’indistruttibile Nikon F, oggi un fotografo professionista cambia macchina fotografica ogni 3-4 anni. Così in tanti altri lavori ormai è difficile mantenere lo stesso strumento per troppo tempo.
Un “tradimento” che sarebbe impossibile per un orefice, depositario di un legame antico con i suoi strumenti, quasi tutti deformati dall’uso. “Sarebbe bellissimo andare in Germania. Ma come porto in aereo questo banchetto?“, scherza Mariarosaria.
Mi colpiscono i movimenti chirurgici e quasi robotici delle mani, pronte a muoversi di pochi millimetri per riuscire a rifinire ogni dettaglio. Così, mentre mi incanto nel guardare i movimenti di un seghetto che definisce alla perfezione le curve tonde di un orecchino, lancio una domanda generica a tutti i presenti: “Che pensate di fare dopo il corso?“
Mi risponde Cristiano: “Sogno di lavorare in proprio perché desidero dar sfogo alla mia fantasia, sperimentare in tanti campi. Lavorare in una grande azienda è stressante e spesso non sei valorizzato per le tue competenze“. Dai primi banchi Aurora si unisce al coro: “Sogno di creare un marchio con mia sorella, già sto pensando al design delle scatoline!“.
Ed è così che ho imparato la seconda regola: l’oreficeria non è solo arte, “è cultura”, puntualizza Elena.
Un pittore ha una fantasia fatta di forme e colori; uno scrittore immagina invece in sentimenti e parole. Ecco, nel caso dell’orefice, le idee hanno una forma metallica. Ma non per questo sono meno nobili.
L'”Università del design” è il luogo al quale molti aspirano per completare la propria formazione anche se, stando a quanto mi è parso di capire, è decisamente costosa. E quasi tutti preferiscono affidarsi a botteghe o grandi imprese, nella speranza di potersi affermare un giorno da soli.
Ed ognuno ha il suo materiale e la sua lavorazione preferita: “Lo sai che una fede nuziale nasce da un filo quadrato? – interviene Mariarosaria – Il lavoro per addolcire le forme spigolose è lunghissimo ed è fatto da migliaia di piccole martellate e lavoro con la fiamma ossidrica. Quando ho realizzato il primo cerchio perfetto mi sono emozionata. Ma è quando lucidi l’anello che ti batte il cuore davvero, è il momento che aspetti da quando cominci a maneggiare il primo metallo grezzo“.
Un po’ la sensazione che sale quando aspetti che il negativo esca dall’ultimo -e infinito- bagno di sviluppo, mi viene da pensare. Gli amanti del mondo vintage mi potranno capire.
“Vuoi vedere una cosa davvero difficile?“, mi interrompe un ragazzo. Prende un sacchettino e rovescia sul suo banco di lavoro una decina di minuscoli quadranti di orologi da polso, con ingranaggi dalle dimensioni quasi invisibili. “Eri sorpreso perché lavoriamo con cose piccole? Guarda questi orologi: se fossi stato pazzo, avrei fatto l’orologiaio!“.
“Quindi potresti riparare anche le fotocamere?”, risponde spontaneamente la mia anima di fotografo.
“Sì, potremmo in teoria riparare i modelli meccanici, ma ci servirebbe tanto tempo per studiare come funzionano. Un vero appassionato non improvvisa“.
Una frase rara e bellissima.
Oggi si fa a gara a chi ha più competenze, fra titoli inventati e lavori portati a termine senza alcuna qualifica. E invece il vero professionista è proprio colui che fa solo ciò in cui eccelle.
In bocca al lupo, ragazzi!
-Federico Quagliuolo